Gli anni del "boom economico"
La tensione tecnologica e la scoperta delle possibilità tecniche
La
ripresa economica degli anni
Cinquanta e Sessanta fu fautrice di
possibilità che per la formazione dei
progettisti dell'anteguerra non erano
pensabili. L'innovazione portò
all'uso corrente i nuovi materiali e
questi le nuove forme che meglio
sfruttavano le loro capacità1.
A proposito della Chiesa
di San Giovanni Battista a Campi
Bisenzio (Firenze, 1960-1964),
Francesco Gurrieri scrive: «Certo, il
più dirompente della "scuola toscana"
resta il vecchio maestro di tutti: Giovanni
Michelucci. La guida ideale e
ideologica della ricostruzione
mancata […]. La chiesa
dell'Autostrada […] è un manifesto
per tutta l'architettura italiana; è
la fine di ogni vernacolarismo anche
colto ed il passaggio ad una libertà
espressiva assolutamente
trasgressiva»2.
Tuttavia la cultura architettonica
collettiva, tolte alcune elevatissime
eccezioni, stenta ad adeguarsi e
dalla fine degli anni Sessanta al
1977 la formazione dell'architetto,
come del resto quasi tutta la
formazione universitaria, è più
prossima all'educazione politica e
sociale che alla preparazione
tecnica. L'ideologia che viene
promossa negli atenei trova un
precario connubio tra teoria e
prassi, risolto solo parzialmente
dalla ricerca sperimentale dei gruppi
di progettazione come il Gruppo
romano architetti e urbanisti (Grau)
guidato da Alessandro Anselmi o come
il Gruppo architettura veneziano
(Carlo Aymonino, Aldo
Rossi, Costantino
Dardi…) che, al di fuori degli
schematismi dell'accademia,
costituiscono centri di libero
pensiero che legano la composizione
architettonica a criteri che
contemperano al formalismo e al
funzionalismo le istanze sociali. Nel
contempo si rinnovano le riviste, nel
1966 nascono «Ottagono» e
«Controspazio», che interpretano il
nuovo disagio ricostruendo, se non un
linguaggio (ormai definitivamente
compromesso), almeno un percorso
comune delle nuove generazioni di
architetti3.
La ricerca di un linguaggio per la nuova architettura degli anni Settanta
La
ricerca si sposta quindi sul
materiale, sulla dimensione, sulla
percezione: Carlo
Scarpa, nella conferenza di
Vienna del 16 novembre 1976
L'architettura può essere
poesia?, descrivendo il suo
lavoro sul Cimitero
monumentale Brion a San Vito
d'Altivole (1968-1978) dice:
«L'architettura è un linguaggio molto
difficile da cogliere e da capire, […]
pittura, scultura, poesia forse,
musica molto, sono abbastanza
comprese, architettura è un
linguaggio misterioso». E nel
descrivere l'opera non descrive la
sua consistenza, quanto la percezione
prospettica itinerante che se ne avrà
una volta realizzata. Negli stessi
anni, con ideali formali radicalmente
diversi, ma con la medesima
attenzione alla dimensione e alla
percezione del visitatore, verranno
realizzati altri due cimiteri: il
cimitero di Parabita (LE) dal Grau di
Anselmi (1967-1977) e il cimitero
di San Cataldo a Modena di Aldo Rossi
(1971-1976). Per Anselmi e Rossi
il rapporto con il progetto è
fortemente segnato dalla lettura
tipologica: Rossi scrive: «la forma
tipologica del cimitero è
caratterizzata da percorsi rettilinei
porticati […] Il cimitero è così
ancora un edificio pubblico con la
necessaria chiarezza e razionalità
dei percorsi». Più avanti nel testo
spiega anche perché proprio negli
episodi cimiteriali si legge con più
nitidezza il pensiero progettuale
dell'epoca: «Il progetto cerca di
risolvere le principali questioni
tecniche, come avviene in una casa,
in una scuola, in un albergo, ma a
differenza della casa, della scuola e
dell'albergo, dove la vita stessa
modifica il progetto e la costruzione
nel tempo, qui […] il tempo possiede
una diversa misura»4.
L'interpretazione che invece dà
Anselmi della propria architettura,
pur confermando l'impostazione
formale e tipologica, fortemente
radicata nello studio storico e nel
"carattere dell'architettura" recita:
«Se il problema cardine oggi è quello
della rileggibilità organica e
razionale dello spazio, centripeta e
chiusa, da contrapporre alla
deflagrazione centrifuga aperta ed
indifferenziata dello spazio cubista
e derivati, il rapporto con la
storia, l'antecedente logico, non può
che essere scelto attribuendo valore
a tutti quei fenomeni artistici che […
] hanno risolto […] tale problema: […]
le testimonianze di quelle epoche
che hanno meritato l'appellativo di
"classico". […] Alla crisi dei
linguaggi particolari […] va opposto
il linguaggio universale e
l'esperienza collettiva dell'arte:
non più tante lingue aventi per
contenuto il nulla, ma finalmente un
contenuto storico espresso con
complementarità di mezzi»5.
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